MASTOPLASTICA ADDITIVA

La mastoplastica additiva è un intervento finalizzato all’aumento di volume delle mammelle ed alla correzione di asimmetrie. Nella mastoplastica additiva, più che per ogni altro intervento in chirurgia estetica, è essenziale un’attenta pianificazione pre-operatoria che deve tenere conto di quelli che sono i desideri della paziente in termini di forma e di volume e valutare se questi sono realizzabili sulla base della situazione anatomica di partenza.
L’intervento può essere effettuato con un accesso dal solco inframammario, dall’areola, o dal cavo ascellare creando una tasca che può essere retroghiandolare, retrofasciale o retromuscolare dual plane utilizzando protesi rotonde o anatomiche con vario grado di proiezione e coesività, rivestite di silicone o di poliuretano.
Tutte queste variabili vengono scelte tenendo conto sia della situazione anatomica preoperatoria delle mammelle che dei desideri della paziente e vanno valutate accuratamente durante i colloqui preliminari.

VIE DI ACCESSO

SOLCO INFRAMAMMARIO: è l’accesso più anatomico, più naturale: si passa sotto la ghiandola mammaria, sotto la fascia del muscolo pettorale o sotto il muscolo pettorale stesso e non attraverso essi. Occorre tener conto che al termine dell’intervento il solco mammario si è spostato in basso, per questo esistono oggi diversi algoritmi che, calcolando i volumi iniziali, i volumi desiderati e le caratteristiche della pelle e dei tessuti, consentono di collocare l’incisione nel neosolco con un’approssimazione di mezzo centimetro al massimo.

CAVO ASCELLARE: L’accesso dal cavo ascellare è il più nascosto, tuttavia, a causa del notevole numero di bulbi piliferi presenti, la cicatrice può risultare di minore qualità e quindi visibile, specie d’estate quando si indossano indumenti senza maniche. L’accesso per via ascellare è inoltre associato ad un maggior rischio di mal posizionamento delle protesi anatomiche.

EMIPERIAREOLARE: è l’accesso che, se correttamente eseguito, tende a guarire meglio, anche perché esistono accorgimenti adottabili a partire dal terzo mese, che portano ad una naturale pigmentazione della cicatrice periareolare che assume pertanto il colore dell’areola stessa.

PIANI DI ALLOGGIAMENTO

RETROGHIANDOLARE: è il piano più naturale, più anatomico: teoricamente, se si potesse, tutte le protesi andrebbero alloggiate direttamente dietro la ghiandola mammaria, perché è la mammella che vogliamo aumentare di volume e proiezione, non il muscolo! Purtroppo, nella realtà, le pazienti che vogliono un ingrandimento mammario spesso hanno una copertura ghiandolare e sottocutanea assai esigua e quindi il posizionamento retroghiandolare risulterebbe in un posizionamento sostanzialmente retrocutaneo, con il rischio di vedere il bordo e la forma della porzione superiore della protesi, anche tenendo conto di una possibile riduzione del volume tessutale mammario nel corso degli anni per la compressione esercitata dalla protesi stessa.
Inoltre, personalmente, preferisco ricorrere a tale piano assai di rado e, nel caso, con impianti piccoli e non pesanti perché è alto il rischio che nel tempo la protesi tenda a dislocarsi verso il basso, non avendo la capsula periprotesica la possibilità di formare tenaci aderenze.

I vantaggi dell’alloggiamento retroghiandolare sono:
  • la rapidità di esecuzione (45 minuti);
  • l’assenza di dolore;
  • la gestione ambulatoriale dell’intervento.

    Gli svantaggi sono:
  • il rischio maggiore di visibilità dell’impianto;
  • il rischio di dislocamento in basso;
  • il rischio aumentato di contrattura capsulare.

    RETROFASCIALE: si alloggia la protesi tra fascia del muscolo pettorale e muscolo pettorale stesso. Si tratta di un piano generalmente poco utilizzato dai chirurghi (forse perché chirurgicamente un po’ più lungo e delicato dell’alloggiamento retromammario), ma se lo spessore dei tessuti lo permette, è un piano eccellente perché consente di avere i benefici di un posizionamento retromuscolare, grazie alla compressione esercitata superiormente dalla fascia del muscolo pettorale, (una struttura sottile, ma inestensibile e molto forte) e di un posizionamento retroghiandolare (perché il muscolo pettorale viene lasciato in sede).

    I vantaggi sono pertanto:
  • la possibilità di coprire il polo superiore della protesi perché la fascia, anche se sottile, è robusta ed inestensibile e rende pertanto meno visibile il polo superiore della protesi;
  • la stabilità del risultato nel tempo perché la capsula periprotesica è salda tra fascia e muscolo e non tende a precipitare verso il basso nel corso degli anni come nel posizionamento retroghiandolare;
  • l’assenza di dolore (il muscolo viene lasciato in sede).


  • Gli svantaggi sono:

  • intervento un po’ più lungo e delicato (spesso la fascia è sottile);
  • non garantisce comunque, in assenza di un adeguato spessore dei tessuti sottocutanei e ghiandolare, un’adeguata copertura del polo superiore, se si utilizzano protesi rotonde o anche anatomiche ad alta proiezione.

    In sostanza, secondo il nostro parere, il posizionamento retrofasciale andrebbe effettuato quando ci sono le indicazioni anatomiche per un accesso retroghiandolare, per poter dare maggiori garanzie di risultato stabile a lungo termine rispetto ad un alloggiamento protesico retroghiandolare.

    RETROMUSCOLARE: è il piano più frequentemente utilizzato perché garantisce sempre un’adeguata copertura del polo superiore e dà la maggior garanzia di stabilità nel tempo. La protesi viene alloggiata tra muscolo e costato. Il piano può essere totalmente retromuscolare o parzialmente (dual-plane).
    Con la prima tecnica la protesi viene inserita totalmente dietro il muscolo grande pettorale e parte del muscolo dentato. È una tecnica particolarmente indicata per pazienti con scarsissimo spessore del tessuto mammario, ma che noi tendiamo ad utilizzare poco perché la mammella risulta piuttosto dura al tatto, con una scarsa convessità del polo inferiore e cambia molto di forma ad ogni contrazione muscolare. Con la seconda tecnica (Dual Plane), da noi preferita quando inseriamo la protesi retromuscolare, creiamo una tasca di alloggiamento per la protesi solo dietro al muscolo grande pettorale senza toccare gli altri muscoli della parete toracica, previo scollamento della ghiandola mammaria dal muscolo pettorale stesso in quantità proporzionale a quanto vogliamo sollevare la ghiandola.
    Con questa tecnica il 50-75% della protesi è coperta dal muscolo mentre la parte inferiore resta in posizione Retroghiandolare. I vantaggi sono:

  • copertura e compressione del polo superiore esercitata dal muscolo pettorale, con possibilità di utilizzare protesi rotonde o anatomiche ad alta proiezione senza il rischio di un eccessivo “effetto push up”;
  • massaggio della protesi da parte del muscolo pettorale stesso con riduzione del rischio di contrattura capsulare;
  • stabilità del risultato (la capsula è tenacemente adesa tra costato e muscolo).

    Gli svantaggi sono:

  • possibile deformità delle mammelle quando si contrae il muscolo pettorale;
  • maggiore rischio di dislocazione in alto o di asimmetria post-intervento (per l’attività residua del muscolo pettorale che mobilizza le protesi);
  • maggiore rischio di avere fastidio post-operatorio: ho volutamente scritto “fastidio” e non dolore perché oggi c’è la possibilità di evitare che l’intervento sia doloroso in oltre il 90% dei casi, attraverso opportuni accorgimenti di tipo chirurgico ed anestesiologico.
    Il rischio che un normale fastidio post-operatorio si trasformi in dolore è sicuramente più alto quando si inseriscono protesi di volume molto grande perché aumenta inevitabilmente la tensione e lo stiramento dei tessuti coinvolti;
  • maggiore accortezza nel post-operatorio per quanto riguarda i gesti in cui si utilizzano i muscoli pettorali, che devono essere sollecitati il meno possibile per evitare dislocamenti delle protesi nei tre mesi successivi all’intervento (tempo in cui si completa la formazione della capsula protesica), a meno che non vengano utilizzate protesi in poliuretano.

    FORMA DELLE PROTESI

    Le protesi possono avere due forme:

    FORMA ROTONDA
    Resta, per noi, la prima scelta quando ci troviamo di fronte ad una mammella ben conformata, con un capezzolo ben centrato sulla ghiandola mammaria e quando alla paziente piace una certa convessità del polo superiore (“effetto push up”).
    E’ fondamentale sottolineare che anche con le protesi rotonde, contrariamente a quanto si crede, è possibile ottenere un risultato naturale, dipende dai tessuti di partenza, dal piano di alloggiamento e soprattutto dal grado di proiezione protesica (se si vuole un risultato naturale è preferibile optare per una proiezione moderata).

    FORMA ANATOMICA (“a goccia”):
    E' la forma più naturale, perché ricalca la forma della mammella.

    La scelta tra una protesi a forma rotonda o anatomica può essere in alcuni casi lasciata al gusto personale della paziente, ma a nostro parere, optare per una forma “a goccia” diventa inevitabile quando si vuole ottenere un certo sollevamento di una mammella ptosica o quando si cerca un risultato stabile negli anni, tenendo conto del fatto che molte mammelle, soprattutto dopo un certo grado di deterioramento tessutale (post-gravidico, post-dimagramento) tendono a scendere e con una protesi anatomica possono essere più agevolmente “sostenute”.

    GRADO DI PROIEZIONE DELLE PROTESI
    Le protesi, sia rotonde che anatomiche hanno diversi gradi di proiezione (lieve, moderata, elevata, molto elevata) Questo significa che, una volta stabilite le dimensioni (altezza e larghezza) degli impianti, possiamo, variando la proiezione, variare i volumi complessivi.

    GRADO DI COESIVITA’ DEL GEL PROTESICO
    Il gel che riempie le protesi ha un diverso grado di coesività, cioè di morbidezza, a seconda della marca di protesi e a seconda che si tratti di una protesi rotonda o anatomica. In generale, indipendentemente dalla marca di protesi, quelle anatomiche hanno un gel leggermente più coesivo rispetto a quelle rotonde perché debbono mantenere la forma “a goccia”. Le protesi a gel più coesivo sono senza dubbio preferibili quando il torace è molto piatto e tessuti sono in tensione perché dobbiamo dare la forma corretta al nuovo seno che si mantenga stabile e contrasti la tensione tessutale esterna (ad esempio negli esiti di demolizione oncologica o nelle ipomastie severe) Esistono anche protesi anatomiche a doppia camera, con una camera posteriore a gel più morbido in modo tale che la protesi accompagni naturalmente il movimento del costato ed una anteriore a gel più coesivo per mantenere meglio la forma e sollevare maggiormente la ghiandola mammaria.

    RIVESTIMENTO DELLE PROTESI: SILICONE o POLIURETANO?

    Le protesi mammarie sono tutte a contenuto siliconico, il rivestimento esterno invece può essere schematicamente suddiviso in:
  • silicone testurizzato:
    la testurizzazione indica il grado di rugosità della protesi, quanto maggiore è la testurizzazione tanto più importante sarà il grado di risposta infiammatoria che condurrà ad una più rapida formazione di una capsula peri-protesica. E’ chiaro che, per una forma anatomica, occorre una testurizzazione importante per evitare che la protesi possa ruotare, invece per una forma rotonda l’eventuale rotazione non costituisce un problema, quindi è possibile rivestirle con una testurizzazione leggera (addirittura da qualche anno sono tornate “di moda” le protesi rotonde lisce, cioè prive di qualunque rugosità dell’involucro, che erano state pressoché abbandonate negli anni ‘80 in quanto associate ad un maggiore rischio di contrattura capsulare e sostituite dalle protesi testurizzate).
  • Poliuretano:
    le protesi in poliuretano esistono dalla fine degli anni ’70 e vengono utilizzate routinariamente negli interventi secondari, quando occorre sostituire le protesi con rivestimento in silicone per complicanze quali la dislocazione, la rotazione o la contrattura capsulare. Ancora oggi, tuttavia, vengono di rado proposte in prima battuta, probabilmente perché sono più complesse da impiantare e perché, aderendo molto rapidamente e tenacemente ai tessuti, non hanno margine di assestamento e quindi, se non vengono posizionate alla perfezione, non possono essere aggiustate nel post-operatorio fino a quando il poliuretano non inizia a sciogliersi sensibilmente.

  • Vantaggi delle protesi in poliuretano:
    Presentano una migliore aderenza ai tessuti grazie ad una superficie assai porosa e questo fa si che non possano ruotare o dislocarsi. Hanno un rischio di contrattura capsulare assai basso, intorno al 2-4 % a 10 anni dall’intervento (Long-term safety and efficacy of polyurethane foam-covered breast implants,Handel N et al: Aesthet Surg J. 2006 May-Jun;26(3), mentre per gli impianti rivestiti in silicone delle principali marche in commercio (Allergan®, Mentor®, Sientra,®), il rischio è intorno al 12-20% (Long-term safety of textured and smooth Breast implants, Calobrace, et al: Aesthetic Surgery journal 2018, Vol. 38 (1).
    Il basso indice di contrattura capsulare è attribuito alla crescita interna ed al microincapsulamento dei fibroblasti nella matrice della schiuma in poliuretano. Diversamente dalle protesi sia con superficie liscia che testurizzata, intorno alle quali si crea un’unica grande capsula, le protesi in poliuretano favoriscono la crescita di numerose microcapsule intorno alla schiuma, motivo per cui le forze contrattili lineari che possono deturpare la protesi, vengono neutralizzate.

    Permettono un recupero più rapido rispetto alle protesi rivestire in silicone. Pertanto, se la paziente desidera un rapido ritorno all’attività sportiva e/o lavorativa e/o utilizza gli arti superiori per lavoro, o se è una mamma con figli piccoli, noi consigliamo le protesi rivestite in poliuretano che si fissano nel giro di pochi giorni ai tessuti circostanti in modo inamovibile annullando il rischio di rotazione, innalzamento o asimmetria delle protesi stesse. Sono il gold standard negli interventi secondari proprio perché non sono soggette a contrattura capsulare.

    Svantaggi delle protesi in poliuretano:
    Necessitano di esperienza e precisione da parte del chirurgo per essere impiantate in quanto, in caso di errore, non sono facilmente removibili, almeno fino a quando il poliuretano non si sia parzialmente sciolto (almeno 6 mesi). Dopo un anno dall’impianto il poliuretano si è riassorbito ed è possibile rimuovere l’impianto con estrema facilità perché le protesi sono diventate sostanzialmente lisce.
    Dopo l’intervento possono avere un aspetto un po’ rigido, anche al tatto si ha una certa sensazione di durezza proprio perché il poliuretano aderisce fortemente ai tessuti limitrofi; nel giro di due/tre mesi il poliuretano inizia il riassorbimento e le protesi si ammorbidiscono. Possono essere lievemente meno adatte nelle pazienti molto magre perché i bordi possono essere palpabili.

    Silicone liscio: L’avvento della testurizzazione negli anni ’80 ha segnato una svolta epocale per quanto riguardava la riduzione della complicanza più nota dell’intervento di mammoplastica additiva che era e resta ancora oggi la contrattura capsulare periprotesica. Le protesi a superficie liscia utilizzate sino a quegli anni vennero soppiantate da altro tipo di protesi a superficie rugosa ( tecnicamente definite testurizzate ) che, in virtù di tale superficie più micro ondulata, riuscivano probabilmente per un notevole aumento di superficie, a limitare gli effetti della contrattura cicatriziale periprotesica ( la capsula altro non è che una cicatrice tridimensionale ) e quindi anche a ridurre i rischi di indurimento del seno protesizzato, a seguito di una severa contrattura capsulare periprotesica, evento con le protesi lisce di un tempo, abbastanza frequente.
    Un ulteriore passo avanti nella produzione di protesi mammarie per mastoplastica additiva avvenne con l’introduzione di un nuovo tipo di protesi cosiddetta a goccia o anatomica per la sua forma più schiacciata al polo superiore e più proiettata al polo inferiore. Ma il fatto principale era la qualità del silicone col quale erano strutturate in esclusiva le protesi anatomiche destinate in primis alla ricostruzione del seno post mastectomia, poi utilizzate di routine anche per la mastoplastica additiva a scopo estetico.
    Le protesi rotonde lisce invece erano rimaste indietro e cioè ancora strutturate sempre col silicone a basso coefficiente di coesività e quindi erano soggette particolarmente al trasudamento di silicone dalla superficie protesica, il cosiddetto bleeding che era la causa principale della contrattura capsulare periprotesica data la particolare reattività dei tessuti a questo tipo di silicone particolarmente fluido.
Da qualche anno, cioè da quando l’industria ha messo sul mercato anche le protesi rotonde strutturate con lo stesso tipo di silicone delle sorelle anatomiche, c’è una tendenza a ritornare alle protesi rotonde a superficie liscia o nanotesturizzata, cioè con una testurizzazione molto tenue.
    Questo perché se è vero che all’inizio i maggiori rischi di contrattura capsulare periprotesica erano attribuiti al tipo di superficie protesica ( liscia ) e l’avvento sul mercato di impianti a superficie rugosa ( all’inizio sempre rotondi ) sembrava avere risposto positivamente al problema, poi l’introduzione delle protesi anatomiche ha palesato che la riduzione della contrattura era legata alla qualità del silicone ( particolarmente coesivo ) che non trasudava dalle protesi e non solo al tipo di superficie ( testurizzata anziché liscia ).

    Vantaggi della superficie liscia:
    Facilità di inserimento della superficie testurizzata ai tessuti sovrastanti la protesi ( effetto Velcron), soprattutto nei soggetti magri possono rendere evidenti in superficie le naturali ondulazioni della superficie protesica costretta nella capsula periprotesica fisiologica.

    Svantaggi della superficie liscia:
    Si è tornati ad utilizzarle da alcuni anni, i dati scientifici inerenti la principale complicanza degli impianti mammari a superficie liscia, la contrattura capsulare, sono ancora esigui e discordanti. La forma degli impianti a superficie liscia può essere esclusivamente rotonda (una forma anatomica avrebbe il problema della rotazione).

    DOMANDE E RISPOSTE PIU’ COMUNI PER L’INTERVENTO DI MASTOPLASTICA ADDITIVA

    No, perché vengono effettuati accorgimenti anestesiologici , prima della narcosi e prescritta una terapia antidolorifica al domicilio. La paziente potrà avvertire un normale fastidio post-operatorio, peraltro facilmente controllabile con gli analgesici; il fastidio potrà essere lievemente maggiore in caso di protesi molto grandi e/o se rivestite di poliuretano.

    Generalmente no, ma è chiaro che più è grande la protesi, maggiore sarà il rischio di visibilità della stessa e di un risultato innaturale. I drenaggi sono necessari? i drenaggi non sono necessari e noi in linea generale non li utilizziamo.

    Occorre un reggiseno specifico fornito dal nostro studio che dovrà essere indossato per 4 settimane dopo l’intervento
    La cicatrice sarà visibile? Le cicatrici risultano alcuni mesi dopo l’intervento quasi del tutto invisibili utilizzando creme specifiche ed eventuali trattamenti laser.

    Normalmente dopo 15/30 giorni

    Certamente sarà possibile eseguire senza alcun problema ecografia, mammografia, TAC o Risonanza Magnetica

    Si, è possibile allattare, ma è consigliabile solo per breve tempo per non compromettere la qualità dei tessuti mammari e incorrere nel rischio che le mammelle “cadano sulle protesi”, che ovviamente sono fisse nella stessa posizione dentro la propria capsula. Se la paziente ha intenzione di allattare è preferibile un accesso al solco sottomammario per non compromettere la ghiandola.

    Per oltre cinquant’anni le mammoplastiche sono state costantemente monitorate mediante ecografia, mammografia e Risonanza magnetica nucleare. Sappiamo, ormai da molti anni, che le protesi non solo non aumentano il rischio di tumore mammario, ma anzi sono un fattore protettivo perchè la paziente protesizzata si sottopone più frequentemente, in media, ad accertamenti diagnostici rispetto alla donna con seno naturale in quanto effettua controlli sia per ragioni di screening per il tumore mammario che di follow up post-operatorio.

    Recentemente si è iniziato a parlare di associazione tra la mastoplastica additiva e linfoma anaplastico a grandi cellule ( ALCL ). Si tratta di una forma rara di linfoma che colpisce entrambi i sessi, che costituisce solo il 2% di tutti i linfomi non Hodkin e che, se scoperto in tempo e curato, non ha conseguenze. Molto di rado, questa neoplasia si può sviluppare intorno a una protesi al seno (BIA-ALCL, da Breast Implant-Associated Anaplastic Large Cell Lymphoma): non si conoscono con certezza le cause scatenanti ma, secondo alcune ipotesi, potrebbe esserci una correlazione con uno stato infiammatorio cronico dovuto alla testurizzazione dell’impianto, che favorirebbe la degenerazione dei linfociti T che si trovano in prossimità della protesi. In media, la diagnosi di questa malattia avviene dopo 9-10 anni dall’impianto protesico.

    L’allarme è partito qualche anno fa dalla Francia che ha riportato alcuni dati di ricerca: nel 2013, 130 casi su base mondiale, nel 2014, 170 casi e risulterebbero da altra fonte 177 casi nel 2015. Si tratta di una incidenza estremamente bassa rispetto ai milioni di donne che ogni anno nel mondo si sottopongono a mastoplastica additiva. Quindi, in definitiva, allo stato attuale delle conoscenze, dobbiamo tenere conto che, in caso di mammoplastica additiva vi è un rischio di linfoma anaplastico a larghe cellule (BIA-ALCL) Si tratta di un tumore raro, curabile perfettamente, quando preso in tempo. I sintomi sono un rigonfiamento anomalo di un seno in assenza di fatti flogistici evidenti o di traumi, sostenuto da un sieroma tardivo (cioè comparso ameno 6 mesi dopo l’impianto): In tal caso la paziente deve sottoporsi a prelievo di almeno 20 cc di siero (con sonda eco guidata) per sottoporlo all’analisi in un centro specializzato così da escludere o confermare la diagnosi di linfoma. Nel 2017, le morti riportate per BIA-ALCL sono state 12 su un numero complessivo di 30 milioni di donne che nel mondo hanno impianti mammari testurizzati.

    Quindi, che rischio reale di morte per BIA-ALCL ha la paziente che decide di introdurre delle protesi testurizzate?
    Per capirlo ancora meglio possiamo riferirci all’unità di misura di rischio Micromort. La misura micromort è stata introdotta nel 1979 da Ronald A. Howard ed un micromort indica quando il rischio di morte di una persona è di uno su un milione.
    Ad esempio scendere dal letto quando hai 20 anni incrementa il tuo rischio di morte di un micromort, guidare la macchina un’ora al giorno incrementa il tuo rischio di morte di due micromorts, correre una maratona incrementa il tuo rischio di 8 micromorts per corsa.
    Il rischio di morte per BIA-ALCL è di 0,4 micromort per una donna con protesi mammarie bilaterali!

    Le protesi più moderne sono garantite a vita in caso di rottura che sia imputabile ad un difetto strutturale e vengono in tal caso sostituite gratuitamente, alcune offrono anche un bonus per le spese mediche e di ospedalizzazione, altre offrono la sostituzione anche nel caso di contrattura capsulare severa (grado III e IV di Backer)